IL VOTO E NOI
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di Emma Colonna
Chi legge le nostre Notecidi probabilmente non ha bisogno di queste poche righe, perché certamente già sa che domenica 8 e lunedì 9 giugno si va a votare su cinque referendum incentrati su lavoro, precariato, sicurezza del lavoro e immigrazione. E già sa che andrà a votare, perché il tempo dell’astensione è finito. Non si può più fare finta di niente. E allora ci rivolgiamo, tramite voi cari colleghi e care colleghe, a chi dovesse avere qualche dubbio, a quei docenti o a quei genitori che dovessero manifestare la propria indecisione e incertezza.
Si potrebbe pensare che quei cinque quesiti non ci riguardino direttamente, perché non siamo né operai né immigrati, e allora che se la vedano fra di loro, i sindacati e il governo. Ma non è proprio così, a ben vedere: raggiungere il quorum, come sapete, vuol dire rendere valido il risultato della consultazione, qualunque esso sia. I referendum rappresentano, nella storia politica del nostro Paese, lo strumento per consultare direttamente i cittadini sulle questioni che di volta in volta si pongono. Andare a votare vuol dire quindi dare validità a quella consultazione, validità che è strettamente legata al numero dei cittadini coinvolti. Vuol dire poter esprimere la propria opinione liberamente. Ecco perché non si può fare finta di niente: l’esercizio del diritto di voto è uno strumento fondamentale per far sentire la propria voce e incidere sulle scelte politiche che ci riguardano da vicino, specialmente in tempi come questi, in cui la distanza fra la vita delle persone e il mondo della politica è enorme.
Ma c’è anche un altro motivo per andare a votare: la scuola è direttamente coinvolta nel quesito numero cinque, che propone il dimezzamento, da 10 a 5 anni, dei tempi dell’acquisizione della cittadinanza italiana per chi ha già portato a termine il percorso previsto dalla legge. Stiamo parlando di persone che hanno il permesso di soggiorno, che lavorano e conoscono la nostra lingua e le nostre leggi, non degli irregolari. Stiamo parlando di tanti genitori dei nostri alunni, forse del compagno o della compagna di banco del figlio di quel papà o di quella mamma che sono indecisi. Il referendum chiede di ridurre da dieci a cinque anni il tempo dell’attesa, una volta raggiunti i requisiti, per poter richiedere la cittadinanza. Tante ragazze e tanti ragazzi che frequentano regolarmente le nostre scuole continuano a essere stranieri e si scontrano quotidianamente con difficoltà di ogni tipo dovute alle norme vigenti. La cittadinanza italiana (che acquisirebbero insieme ai loro genitori) li renderebbe finalmente liberi, e renderebbe le nostre classi luoghi in cui tutti gli alunni hanno gli stessi diritti.
E allora diciamolo, a quei genitori che non si sentono coinvolti, o, peggio, sono contrari per paura: dimezzare i tempi è un atto di civiltà, e i loro figli saranno fieri di loro.