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RICOMINCIAMO A PENSARE

Ricominciamo a pensare

È il momento di riprendere la parola. C’è voluto tempo per superare lo sconforto di fronte a ciò che sta succedendo nel Paese, ma la scuola non può più restare in silenzio. Sarebbe imperdonabile far finta di niente quando nel Paese si sta rapidamente volatilizzando quella idea di società democratica, aperta, plurale, che supera le proprie paure accettando la propria vulnerabilità e le contaminazioni in quanto necessarie per rinnovarsi e trovare risposte nuove alle esigenze di sempre, oggi più urgenti, di convivenza.

La scuola è il laboratorio dove storicamente il Paese ha cercato risposte, non solo un luogo pubblico capace di rispondere ai bisogni di ciascuno come un supermercato ben fornito, ma il luogo pubblico civile che chiede l’ascolto e l’accordo reciproco per raggiungere gli obiettivi di ciascuno.

La scuola italiana ha integrato dal dopoguerra  in poi prima i figli dell’immigrazione e dopo i nuovi italiani, senza lasciare in un angolo i portatori delle tante e diverse disabilità.

Ecco perché non possiamo più far finta di niente. Occorre agire, e farlo in forma collettiva, perché sia un segnale forte e significativo in un momento storico che segna la rottura di argini all’intolleranza che credevamo indistruttibili. La scuola vince l’intolleranza con la conoscenza.

Perché abbiamo il dovere di insegnare a porsi delle domande e a cercare le risposte. Contro l’oscurantismo, l’approssimazione e l’ignoranza dobbiamo mettere in campo il sapere scientifico e la ricerca; il linguaggio della matematica e della logica; la conoscenza della storia, con tutto quello che significa; la consapevolezza del proprio corpo; la bellezza e l’importanza dell’arte e di tutte le forme espressive; la letteratura, che aiuta a capire il mondo, le passioni e i sentimenti; la costruzione del pensiero critico.

È un dovere che tuttavia è anche la nostra più grande risorsa per educare alla convivenza perché se attraverso lo studio disciplinare insegniamo a interpretare la realtà, ad ascoltare e a ragionare, a interloquire tra pari sentendosi liberi di essere se stessi, si insegna anche il rispetto verso tutti.

La scuola è veramente scuola se fa sentire ciascun alunno e alunna “soggetto”, portatore di valori e di aspettative da sviluppare, ma in un contesto in cui si è costantemente “soggetti all’altro”, che sarà conosciuto e rispettato nella sua singolarità grazie alla collaborazione che la scuola impone fra tutti.

Fuori non è così. Fuori, nel Paese, sembrano crescere ignoranza, arroganza, indifferenza ai soprusi dei fondamentali diritti dell’uomo nel nome di una effimera ricerca di sicurezza, utilizzando argomenti e falsificando la realtà al solo scopo di fomentare le paure. È questo il clima culturale che permette a una politica della crudeltà, indegna in qualunque Paese voglia dirsi civile, di diventare possibile.

La scuola è il luogo privilegiato dove elaborare le paure, quelle vere e quelle artatamente costruite, e dove prendere la rincorsa per saltare quei muri che purtroppo ovunque stanno rialzandosi.

Dove se non nelle aule e nei laboratori, che sempre più diventano un ologramma di mondo, può costruirsi quella “convivialità delle differenze” che sappia fare di esse una risorsa preziosa per l’apprendimento?

Ma gestire le diversità in classe non è una passeggiata, è una fatica che può diventare improba se non si mette in discussione lo schema tradizionale, e purtroppo resistente, della scuola. Se la didattica resta nella sostanza ancorata alla triade spiegazione-studio individuale-interrogazione la disomogeneità della classe rappresenterà sempre un problema e la crescente varietà degli alunni lascerà traccia solo nella crescente varianza della distribuzione dei loro esiti.

Ecco perché è una sfida che non .........

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