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Dopo i fatti di Parigi. Restare vulnerabili

Di fronte al nuovo drammatico attacco terrorista di Parigi si resta sgomenti. E' logico attendersi che ne derivi una nuova impennata della paura verso il diverso, lo straniero in qualunque forma si mostri. Poco importa che di straniero gli assassini abbiano solo il cognome in quanto sono francesi nati in Francia, che tra i giornalisti morti ci sia un francese di origine algerina e che il poliziotto freddato sul marciapiede si chiamasse Ahmed, pure lui francese.

I terroristi e gli assassini sono una minaccia e quindi devono essere altro-da-noi, perché il male che nasce all'interno della nostra comunità è quello che ci fa più paura, che ci fa sentire più indifesi.

Ci scopriamo vulnerabili ed esposti alla contaminazione, per questo la risposta più facile è la fortificazione dei confini e la rappresentazione del male come tutto ciò che è e deve restare al di fuori.

La storia dovrebbe insegnarci che è un tentativo vano. I fanatismi, religiosi e non, hanno sempre costellato la storia dell'umanità, fioriti sempre in coincidenza con momenti di crisi della vita sociale, ma anche combattuti spesso con successo dalle forme democratiche di convivenza.

 

Dobbiamo accettare che nel nostro futuro saremo sempre più esposti alla vulnerabilità e alla contaminazione. Ma è la nostra risorsa, non la condanna all'insicurezza. E' difficile dirlo oggi, nel giorno di una ferita così profonda, ma proprio per questo è ciò che oggi va detto.

E credo tocchi farlo proprio a noi, gente di scuola. Sappiamo quanta fatica costi insegnare in classi dove si affiancano tante etnie, culture, lingue diverse.

Ma possiamo anche testimoniare che quegli alunni che nei loro quartieri hanno tutti un muretto sul quale incontrarsi con quelli-che-sono-come-me, nella scuola non lo trovano. La vita in classe distrugge quei muri e usa i suoi mattoni per creare una coesione che è trasversale alle appartenenze. Non nega i legami preesistenti, ma li pone in un contesto più ampio affiancandoli ai nuovi legami della scuola, quelli che nascono dalla partecipazione a un'impresa collettiva, di scoperta di sé, dei compagni e professori, del sapere.

Non è certo un risultato scontato, ma avviene. Non fa notizia perché appartiene alla quotidianità della vita scolastica. Accade non tanto perché si è insegnato che questo è il bene, ma perché a scuola i ragazzi e le ragazze crescono come soggetti ma in una condizione che li pone sempre e contemporaneamente "soggetti all'altro".

La scuola è "pubblica" non quando è "aperta al pubblico" con l'orario di un discount, ma quando sa trasformare la vulnerabilità in permeabilità e la contaminazione in opportunità di fecondazione.

L'esempio che offre indica la strada giusta, basta avere il coraggio per seguirla.

 

                                                                                    Giuseppe Bagni

 

Roma 8 gennaio 2015

 

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