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IL CIDI. UN DISEGNO STRATEGICO PER LA SCUOLA E IL PAESE

Un disegno strategico per la scuola e il Paese
In ricordo di Luciana Pecchioli

Ermanno  Testa    

Il disegno politico che portò all’inizio degli anni settanta alla costituzione del Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) merita di essere ulteriormente approfondito per l’indubbio vantaggio che ne derivò allora al sistema scolastico italiano e per gli importanti spunti che ancora oggi se ne potrebbero trarre ai fini di una efficace politica scolastica. Non ci troviamo infatti di fronte al semplice costituirsi di una associazione di insegnanti ma al concreto tentativo di realizzare un disegno politico strategico: concorrere a trasformare in senso democratico il sistema scolastico italiano e con esso contribuire al processo di ulteriore democratizzazione del Paese. Tale disegno prende lo spunto, nelle intenzioni di Luciana Pecchioli, insegnante di matematica e scienze, che ne fu l’ideatrice, dalla presa d’atto delle difficoltà in cui versava la nuova scuola media unica, introdotta nel 1963, contestualmente all’innalzamento dell’obbligo di istruzione fino ai quattordici anni. Si trattava di una delle riforme del primo centro sinistra volute dal partito socialista, nuovo alleato di governo della democrazia cristiana. Realizzata sulla base del principio di scuola di tutti, essa però con il mantenimento dell’insegnamento opzionale del latino al terzo anno da impartire a quegli allievi che intendessero proseguire gli studi al liceo, non cancellava del tutto l’antico carattere divisivo e classista della scuola fino ai quattordici anni, in contraddizione proprio con quel principio democratico a cui la riforma stessa intendeva ispirarsi. La scuola media unica, nata dunque sulla base di un compromesso assai debole, aveva inoltre riscosso in Parlamento anche la netta opposizione della sinistra comunista, peraltro ancora disorientata al suo interno dal dibattito se fosse o meno necessario l’insegnamento del latino per innalzare il livello di istruzione di tutti i futuri cittadini italiani. Il debole compromesso risultava inoltre ancor più aggravato dalla gestione burocratica del processo riformatore affidato ad un apparato ministeriale profondamente legato alla Dc e al conservatorismo cattolico. “Lettera a una professoressa”, libro ispirato da don Milani, nel 1967 aveva denunciato con dati espliciti il fallimento di quella riforma proprio nei riguardi della parte di allievi socialmente più disagiati che invece ne avrebbero dovuto maggiormente beneficiare. Il libro aveva suscitato un grande dibattito nel Paese e non soltanto nella scuola: esso però più che orientare la critica verso la inadeguatezza della scelta politica e culturale effettuata, indicava, nel titolo stesso, gli insegnanti, o meglio, al femminile, le insegnanti, quali artefici di tale fallimento. Insegnanti che nelle prime elezioni scolastiche degli anni settanta, malgrado la ventata innovativa del ’68 e una crescente sindacalizzazione della categoria, non scevra da radicalismi, mostravano di propendere ancora in maggioranza verso scelte corporative e conservatrici. Il conflitto, più politico e ideologico che professionale, tra innovatori e conservatori, nelle scuole era una costante ma spesso privo di esiti significativi sotto il profilo educativo. La proposta del Cidi mirava a superare questo stallo inutile e controproducente tra gli insegnanti: non era infatti con slogan esagerati (“Aboliamo il libro di testo!”) usati con linguaggio politico-sindacalese o con sterili contrapposizioni ideologiche e politiche o, per contrappunto, con atteggiamenti di totale chiusura ai cambiamenti all’interno delle scuole che poteva migliorare la qualità del sistema scolastico; ma semmai cercando insieme, tra i docenti, quale che fosse il retroterra ideologico culturale di ciascuno, il percorso più adeguato per rispondere al meglio al bisogno di cultura di ogni allievo, nessuno escluso. Non si trattava di dichiararsi più o meno democratici poiché ciò che contava per un insegnante desideroso di far bene il proprio lavoro era di attivarsi uscendo dall’isolamento della propria classe producendosi in un confronto aperto sul piano didattico professionale con gli altri colleghi e ricercare insieme l’azione educativa più efficace nei confronti degli allievi. Il Cidi non a caso si chiama “Centro di iniziativa democratica degli insegnanti”. È l’iniziativa, quando ad essa si dà seguito e non fermandosi solo alle intenzioni, che è democratica se è finalizzata a migliorare in modo efficace l’azione educativa. Gli insegnanti, secondo L. P., possono/debbono diventare i veri protagonisti del cambiamento in senso democratico coerentemente con quanto stabilito nell’art. 3 , secondo comma, della Costituzione (“La Repubblica rimuove gli ostacoli…”), quali che siano le condizioni materiali (“…perché c’è sempre modo di migliorare”) e lo stato delle riforme (“Possiamo anticipare le riforme!”). E tutto questo nel quadro di un rinnovamento culturale (competenza linguistica in tutte le espressioni comunicative, nuova centralità degli insegnamenti scientifici, cultura del fare e del saper fare) che talora si avvaleva, se necessario, anche del concorso spontaneo di competenze universitarie. Il sostegno della scuola da parte dell’università, e non solo dei settori pedagogici e umanistici ma, secondo un’idea compiuta di cultura, anche scientifici e tecnologici, avvenendo su richiesta degli insegnanti non poteva che essere rispettoso dell’autonomia della loro specifica funzione e solo ad essa finalizzato. Proprio il carattere di organizzazione volontaria dei Cidi, scevra da ogni burocratismo, ha consentito così di dar vita ad una miriade di iniziative e al costituirsi di decine e decine di Centri autonomi, dal nord al sud d’Italia, con propri statuti, con caratteristiche tra loro anche molto diverse, ma con lo scopo comune di dar vita a un profondo rinnovamento dell’insegnamento e della scuola. Fatto salvo l’annuale Coordinamento nazionale dei Cidi, creato dopo l’avvio delle attività in numerose città, e una Segreteria nazionale eletta di anno in anno per garantire un minimo di collegamenti regionali, proprio il carattere spontaneo e volontario dell’associazione ne ha impedito una strutturazione di tipo tradizionale (“Non siamo un partito, né un sindacato, né una associazione in senso stretto: chiunque, animato da spirito democratico, può partecipare senza barriere né ideologiche né politiche…”). Con questa esperienza di mobilitazione delle forze più attive all’interno della categoria, evitando atteggiamenti accusatori ed elitari ma cercando di sviluppare pratiche didattiche abbordabili, anche semplici e attuabili purché significative, si è dunque radicata in molte scuole una diffusa pratica di ricerca, sperimentazione, sviluppo e di verifica sul campo: ciò non solo concorreva ad innalzare il livello culturale e professionale di moltissimi docenti ma sottraeva la categoria dall’accusa di essere la causa prima delle difficoltà e anche dei ‘fallimenti’ della scuola; faceva di essi dei protagonisti attivi delle riforme; ridava loro la motivazione prima del proprio lavoro: contribuire a educare cittadini colti e preparati per il bene del Paese e la sua crescita democratica, secondo Costituzione. “Ma tu che insegni a fare?” fu tra i temi prioritari più dibattuti in numerosi Centri: una domanda che induceva a riflettere sulla qualità del proprio insegnamento. In questo modo il Cidi ha contribuito efficacemente a sostenere una importante stagione di riforme scolastiche (anni ‘70-‘90) anche arrivando, quando richiesto, ad avanzare ai decisori politici, in base alle competenze elaborate e sviluppate grazie al contributo di idee e di esperienze di tanti insegnanti, proposte possibili di cambiamento; dando vita a una importante “cultura della scuola” che ha attraversato quelle riforme, fintanto che la sponda politico parlamentare ha manifestato interesse alla scuola e su di essa ha investito risorse. Dunque il Cidi è nato sulla base di un disegno strategico complesso: superare, non solo sul piano culturale, una certa rigidità e gli indugi di una parte importante della sinistra verso le più recenti riforme scolastiche; contrapporsi a estremismi improduttivi evitando slogan e luoghi comuni in parte eredità della recente ventata contestatrice; mitigare attraverso il dialogo remore conservatrici presenti nel ben organizzato associazionismo cattolico degli insegnanti; rimuovere inutili steccati ideologici assegnando alla scuola una funzione decisamente democratica, secondo Costituzione; ridare fiducia ai docenti riconoscendo loro la capacità, attraverso il confronto e la ricerca, di cambiare le cose divenendo essi stessi protagonisti oltre che propugnatori dei cambiamenti; offrire al mondo accademico la possibilità di confrontarsi con la scuola, su un piano di reciproco riconoscimento, con una importante funzione di supporto scientifico culturale; dare finalmente equilibrio, in una stagione di riforme scolastiche, all’azione politica di governo con una corrispondente azione di trasformazione culturale e professionale che nasceva dalla scuola stessa. Insieme accelerando, in quegli anni, un importante processo di svecchiamento del sistema di istruzione.

 

Roma 2 marzo 2019