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Anticipo a 5 anni, perplessità e questioni aperte

di Giuseppe Bagni

L’Europa ci chiede che il ciclo di studi per il conseguimento di un diploma si concluda a 18 anni. Ci sono stati tentativi falliti sul nascere di “accorciare” la scuola secondaria di primo e secondo grado. Ma la soluzione era lì, sotto gli occhi di tutti: «lo strumento migliore non è una scuola superiore di soli quattro anni, ma la possibilità di mandare i figli a scuola un anno prima», intendendo con questo che i bambini potrebbero essere iscritti alla scuola primaria a 5 anni. L’attuale inquilina di Viale Trastevere dopo  pochi mesi dal suo insediamento ha lanciato sul terreno del dibattito sempre accidentato che riguarda il mondo della scuola, la sua proposta.

Ora si potrebbe obiettare che la Scuola dell’Infanzia è una scuola a tutti gli effetti, che ha un suo curricolo di durata triennale, che risponde alle esigenze e ai bisogni di una specifica fascia di età (3-6 anni) connotata da un preciso profilo psicologico. Si potrebbe continuare ricordando alla Ministra che le ricerche internazionali, anche recentemente, concordano nel confermare ciò che potrebbe essere facilmente intuito con l’esercizio del semplice buon senso, ovvero che la frequenza di una scuola dell’infanzia di qualità rappresenta una variabile determinante ai fini di un percorso formativo efficace e produttivo e che solo un intervento precoce è in grado di contrastare l’insorgenza di quei disagi e di quei malesseri che troppo spesso si risolvono in insuccesso e in abbandono.

Ma dire e ribadire queste cose non solo ci sembra inutile, di fronte alla portata di certe proposte. Dire e ribadire queste cose significherebbe in un certo qual modo mettersi sullo stesso piano della Ministra, dimenticando o disconoscendo i motivi che consentono a Lei e a molti altri di pensare anche solo plausibile una simile iniziativa. E i motivi vanno ricercati nella modalità con la quale ci si è occupati della Scuola dell’Infanzia in questi ultimi anni. Prima c’è stata l’esaltazione: la scuola migliore del mondo, il modello pedagogico che tutti ci invidiavano, il gioiello di famiglia. Poi ci sono stati gli attacchi frontali: l’anticipo in ingresso e in uscita, le sezioni primavera, l’organizzazione del tempo scuola a richiesta delle famiglie… Infine, il silenzio. Sono anni che nessuno si occupa più di questa scuola, almeno formalmente, con interventi diretti.

Si è scelta la strada della disattenzione attiva: aumento progressivo ma costante del numero dei bambini per sezione, inserimento senza regole dei bambini anticipatari, mancato rispetto di qualunque parametro per l’inserimento dei bambini diversamente abili, incuranza di spazi e ambienti anche ai soli fini della sicurezza, assenza di fondi per l’acquisto anche solo del materiale di facile consumo… Il tutto nel silenzio generale, lasciando che il lavoro sporco lo facessero dirigenti troppo zelanti, collegi dei docenti distratti, genitori attenti solo alle proprie esigenze. Senza clamore, senza decreti, in modo che la confusione creata da norme contraddittorie e ambigue generasse una prassi non totalmente legittima, ma sicuramente forte, perché basata sul soddisfacimento di interessi altrettanto forti (quelli delle famiglie, quelli degli organici, quelli di ottenere un consenso spendibile in altri settori).

La disattenzione attiva è stata ed è un’arma potentissima che è riuscita, in nome di esigenze certamente legittime, ma che non dovevano essere scaricate sulla scuola, a indebolire questo segmento scolastico, a minarne l’identità, a negarne i capisaldi sui quali stava costruendo i suoi standard di qualità. È per questo che la Ministra, che pure è Ministra anche della scuola dell’infanzia, può pensare e dire impunemente che la soluzione sta nel mandare i figli a scuola un anno prima. Perché nonostante tutta la pedagogia e tutta la retorica che è stata evocata intorno all’infanzia e alla sua scuola, la scuola, quella vera, inizia, come dice il nome, dalla scuola primaria. Per questo è inutile evocare ricerche e studi, pedagogia e psicologia. Forse l’unica difesa possibile, in tempi di spending review sta nel fare appello a ragioni economiche, legittime ma di nuovo esterne rispetto ai diritti e ai bisogni dei bambini, che evidentemente hanno poca presa. E allora dovremmo invitare la Ministra a fare un po’ di conti e valutare quanto costa in termini economici, in euro, in termini di risparmio per le casse dello Stato, di abbassamento del debito pubblico, avere meno bambini e ragazzi per i quali attivare insegnanti di sostegno, quante ore dei GLIC si potrebbero risparmiare, quanti casi di BES e DSA potrebbero essere evitati agli ordini scolastici successivi se solo si mettesse la scuola dell’infanzia nelle condizioni di lavorare davvero con i bambini e per i bambini. È un’ipotesi che non è ancora venuta in mente a nessuno.

Roma 30 maggio 2014

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